ICONOLOGIA MINIMA

FUNZIONE SOCIALE DELL’IMMAGINE, DAL MOLTO SERIO AL MENO SACRO PASSANDO PER IMMAGINETTE E RICORDI DI FAMIGLIA

Immagini e magia
Fin dai tempi più antichi a chi sapeva disegnare si attribuivano capacità misteriose, utili per la caccia e quindi per la sopravvivenza.
Per quanto possa sembrare inverosimile, il disegno era per i nostri antenati una cerimonia e nello stesso tempo uno strumento di caccia.
Anzi, era equivalente a quello che per noi può essere una trappola per topi.
Infatti disegnando sulle pareti si poteva “catturare” la selvaggina e procurarsi il cibo esorcizzando il pericolo.
Era dunque una parte essenziale dell’organizzazione e della battuta di caccia.
Disegnare la preda prima della spedizione significava in qualche modo già possederla, oltre che programmare l’azione, ed era anche in qualche modo scaramantico, e di buon auspicio.
Era magia, insomma.
Nell’immagine dipinta il cacciatore, attraverso l’atto stesso del dipingere, credeva probabilmente davvero di possedere la preda, e di acquistare potere su di essa.
Era come immaginare che l’animale vero sarebbe stato ucciso così come era stato dipinto nella scena dell’uccisione.
E tanto più il disegno era verosimile, tanto più avrebbe funzionato.
Era anche una evocazione: una volta disegnata, la preda si sarebbe fatta viva, e non avrebbe avuto più scampo.
Era stregoneria, e chi era capace di disegnare era uno stregone.
Questo atto di magia avrebbe segnato così fortemente e per migliaia di anni l’atto stesso del dipingere, al punto che questo carattere ce l’ha ancora oggi e probabilmente l’avrà per sempre.
Anche quando sembra che si sta disegnando per se stessi o per il puro piacere degli occhi.
Da questo a dipingere cose e vicende sconosciute o misteriose, di quelle che non sembravano avere una spiegazione logica, il passo era breve.
La magia del dipingere avrebbe aiutato a possederle e a governarle.
Era naturale, che dipingere diventasse un mestiere sacro.
Una religione, insomma.

L’icona (che appare, che è simile)
Prima che il Cristianesimo delle origini fosse riconosciuto dallo Stato, la Chiesa aveva combattuto contro l’uso delle immagini nel culto, e non solo per questioni di principio, ma anche perché ne temeva la competizione.
D’altra parte i primi Cristiani ne rifiutavano l’uso eccessivo che ne facevano i Romani, per i quali le immagini erano diventate “puro piacere per gli occhi”.
Dopo l’Editto di Milano voluto dagli Augusti Costantino e Licinio, detto anche ”di tolleranza” in quanto stabiliva il diritto a professare qualunque Fede, non sembrava che ci fosse più il rischio che le immagini portassero alla idolatria, e si cominciò ad usarle per “educare” chi non sapeva leggere sui misteri del culto e sulle storie dei martiri, e un po’ alla volta divenne normale la rappresentazione religiosa.
Nel V secolo l’immagine del Salvatore era già diventata un oggetto di culto e, alla fine, era una specie di protezione contro il Maligno.
Cominciarono i pellegrinaggi verso i monasteri, la gente chiedeva preghiere e consigli, e intanto però consegnava al monastero suppliche e doni.
L’attrattiva maggiore erano soprattutto le icone miracolose, e una che fosse anche celebre era una fonte inesauribile di ricchezza e di consenso.
I monaci naturalmente favorivano il culto dei santi, l’esposizione delle reliquie e la vendita delle indulgenze, che accrescevano entrate e notorietà.
La Chiesa cominciò a vedere la questione come un problema serio e il Cesaropapismo, cioè la coincidenza tra potere temporale e religioso, faceva coincidere il fastidio della Chiesa con quello dell’Imperatore.
Quando diminuirono le risorse per la manutenzione dell’esercito, costoso perché tutto mercenario e impegnato contro Persiani e Arabi lungo i lontani confini, apparve inopportuno lasciare quelle occasioni di ricchezza ai monaci.
Nello stesso tempo sembrò comodo eliminare quel mercato ricco e pericoloso, facendo anche un favore a Chiesa e cortigiani.
Leone III Isaurico, preoccupato per la stabilità dello Stato e desideroso di incamerare tutta quella ricchezza, decise di vietare il culto delle icone, togliendo ai monaci il loro più efficace mezzo di propaganda.
Nel 730 dopo Cristo emanò la Legge Iconoclasta, la prima degli editti che ordinarono la distruzione delle icone.
Queste ultime divennero illegali, e perseguibili furono i monaci che le veneravano.
Editti in realtà che non ebbero effetto subito e che furono alternativamente ritirati ed emessi, ma dopo qualche decennio si arrivò comunque alle persecuzioni vere e proprie.
Agli Arabi soprattutto, che non avevano l’abitudine di venerare né immagini né idoli, non parve vero di avere la scusa per accanirsi contro i monasteri, e cominciò l’esodo dei monaci prima verso la Sicilia e poi lungo la Calabria, incalzati dalla furia degli iconoclasti.
Quella moltitudine di monaci avrebbe poi continuato la risalita per la Campania e fino al Lazio, ma intanto per qualche secolo si fermò nelle terre alternativamente bizantine e longobarde della Lucania, una specie di area di frizione tra i due grandi Imperi d’Occidente e d’Oriente.
Tanto bastò per trasformare un’area povera e selvaggia in una vera e propria Eparchia religiosa, ricca, pacifica e che promanava spiritualità alta fino ai monasteri dell’Oriente.
Le icone e i libri illustrati con immagini sacre continuarono ad essere prodotte anche nei luoghi di arrivo, ma con procedure rigorosamente standardizzate, con formati e tecniche non facilmente riproducibili, senza lasciare alcuna libertà ai monaci nemmeno su colori e proporzioni, in quanto non sempre questi erano artisti bravi e consapevoli e rischiavano, se non orientati, di non dare il giusto
senso ai simboli.
Del resto Strabone aveva sentenziato: …. “pictura est quondam litteratura illitterato” e il Vescovo Guglielmo Durando rincalzava: “pictura et ornamenta in ecclesia sunt laicorum lectiones et scripturae ”.
La pittura diventò insomma un potente strumento di educazione e di propaganda, in un Mondo nel quale gli eruditi erano ancora pochi.
Comunque le lcone viaggiavano spesso insieme ai monaci.
Questi le portavano continuamente con loro nei loro trasferimenti tra cenobi e nuovi luoghi di insediamento.
Furono dipinte anche le pareti delle grotte e dei monasteri, dappertutto, e non c’era luogo sacro che non avesse immagini sulle pareti.
Ancora più vicino alla comprensione della gente c’era però un altro strumento, anch’esso potente, ed era quello della declamazione delle vite dei Santi, durante i rituali sacri.
La lettura esofasica, cioè la lettura ad alta voce, che è così naturale per noi, pare che non fosse invece altrettanto usuale fino al X secolo, al punto che Sant’Agostino si meravigliava della capacità di SantAmbrogio che leggeva “dentro”, senza emettere alcun suono dalle labbra.
l ricorso ad una icona “sonora” si rendeva certo necessario a causa dell’analfabetismo di gran parte della popolazione.
Ma era anche una delle tecniche di aiuto alla preghiera come il rosario, le giaculatorie e le formule ripetitive dei rituali sacri, secondo gli insegnamenti che da Sant’Antonio in poi facilitavano l’Ascesi, cioè la liberazione dalle passioni attraverso l’esercizio della preghiera e la Parrèsia, cioè la familiarità con Dio.

I caratteri del Santo
Insegnamento di vita e modelli di comportamento eccellenti, i Santi e i Martiri erano difficili da imitare, ma sicuramente indicavano la via diritta verso la salvezza.
Le loro vite erano descritte nei Bios, e non c’è Santo che non abbia avuto il suo.
Se ne fecero delle sintesi facilmente comprensibili e che raccoglievano in poche righe le caratteristiche di quel particolare Santo e i motivi per cui era da considerarsi un esempio da seguire.
Il tutto fatto in modo che con pochi tratti se ne avesse una descrizione fortemente educativa.
Le vite venivano raccolte nel Sinassario, dal quale se ne leggeva una ogni giorno, durante i riti sacri.
Per venerare Santi e reliquie si doveva andare comunque nei monasteri, e non tutti avevano la possibilità di farsi fare una propria icona che, essendo un oggetto di fattura complessa e costosissima, aveva bisogno di un artigiano esperto.
La procedura iniziava già dalla scelta del legno per il supporto, proseguiva con la spalmatura del fondo in oro e rame e nella scelta dei materiali per i colori, rigorosamente prestabiliti, come il manto celeste della Madonna o il rosso delle vesti.
Il soggetto stesso doveva essere rappresentato con aspetto ieratico, espressione fissa e frontale, evidenziando oggetti e richiamando circostanze che lo distinguevano.
Logiche che saranno riprodotte nel tempo in modalità praticamente immutate, e che si ripetono ancora oggi quando si attribuisce, per esempio, a San Rocco il cane che gli lecca le ferite, o che sullo sfondo si posizionano le case che Sant’Emidio protegge dal terremoto, ecc..
Insomma, iconografia e iconologia indicavano e confermavano continuamente i caratteri salienti della vita del Santo, per renderlo facilmente riconoscibile anche ai non eruditi nel Panteon degli eroi della Fede.

I Santini
Le cose andarono così fino a 1455, quando Gutemberg propose la stampa industriale.
Da allora i costi un po’ alla volta furono abbattuti e ognuno finalmente poteva portarsi a casa testi e icone stampate.
È la nascita di Santini o , per le nostre nonne, “mmaginett” , “figuredd”, o “santicidd” (non sono riuscito a individuarne, ad oggi, termini veramente dialettali in uso dalle nostre parti).
Sono figure sacre portatili, e che da allora e fino ad oggi sostituiscono egregiamente i loro costosissimi antenati.
Dopo un po’ tutte le famiglie ne avevano anche più di uno.
Si riempirono case, comodini e vestiti con icone di tutte le dimensioni, un po’ più adattate ai tempi moderni, ma che in fondo erano sempre realizzate con i criteri utilizzati per immagini sacre, e somigliavano rigorosamente a quelle originali.
Ancora qualche decennio fa anche nei vestiti dei bambini o nelle fasce se ne infilava qualcuna piccolina, nell’abitino, per buon augurio e protezione.
Agli uomini si cucivano dentro i cappelli, alle donne sulle sottane.
Quanti nostri giovani soldati andarono in guerra con la consueta dotazione di gavette d’ordinanza e immaginette sacre !
Quanti esami di Stato o all’Università sono sostenuti ancora oggi con la complicità del Santo protettore !
E le operazioni chirurgiche? Quanti di noi le hanno affrontate protetti da un Santo!
I Santini erano e sono considerati amuleti, portafortuna e difesa contro malattie e malocchio, in equilibrio tra sacro e profano, e cominciarono ad essere realizzati anche con forme sofisticate.
In Spagna e in Francia per esempio si realizzavano con gli orli decorati o merlettati, attraverso particolari processi di stampa, e pare che fosse una frivolezza molto apprezzata.
Ancora oggi ogni Santino rappresenta le caratteristiche che distinguono un Santo dagli altri, e che fanno riferimento alle sue vicende o ai miracoli per cui è conosciuto.
Spesso sul lato B è stampata una sua Vita breve o una preghiera che si recita per devozione o per ingraziarselo.
Dagli anni 50 è subentrata l’abitudine a distribuire anche figurine con foto dei propri cari scomparsi e preghiere in loro suffragio, in occasione delle ricorrenze funebri.
Non c’è comunque nessuno, tra noi, che non abbia avuto a casa o tra le mani un Santino.
Ecco perché tra i meriti di questa collezione e della Mostra, forse il più grande, è certamente quello di ravvivare la Memoria e di riproporre una familiarità con un sacro che è stata esperienza di noi tutti.

L’evoluzione dei Santini

Icona politica

Vengono chiamati ironicamente “santini” anche le immagini promozionali dei candidati in campagne elettorali per le elezioni amministrative o politiche, stampati ed affissi per veicolare la propria immagine e fornire indicazioni semplificate e immediate, con slogan che fanno presa e che suggeriscono il motivo per votarli.
Non sempre in verità accolti con la stessa devozione delle figurine religiose, distribuite a mano o zippati nelle cassette postali, spesso sono oggetto di lettura sommaria e ad elezioni concluse finiscono per riempire bidoni di spazzatura.
Usa e getta, hanno vita breve, ma pervasiva e diffusa in tutte le case.
Non se ne ha notizia, ad oggi, di collezioni similari a questa, e forse di loro resterà traccia solo negli immensi archivi immateriali del Web o di qualche Partito.

Icona informatica

È un elemento grafico semplificato, cioè un’immagine (di solito un disegno stilizzato) di dimensioni ridotte e che ha lo scopo di rappresentare un software o un tipo di file oppure, più in generale, per trasmettere informazione in forma estremamente sintetica.
In pochi anni hanno avuto una diffusione impensabile, attraverso i nostri cellulari (emoticon) e, prima ancora, con i computer.
Hanno modificato il linguaggio, le regole di comunicazione interpersonale, le modalità di relazione e le abitudini di lavoro e quelle sentimentali.
Apparentemente non hanno alcuna relazione con le icone tradizionali, ma forse un’analogia ce l’hanno, al limite con l’irriverenza.
Evitando naturalmente di scomodare concetti delicati e importanti come la consustanziazione e la transustanziazione, per secoli causa di scomuniche e accuse di eresie, e che sono più degnamente affrontabili con competenze religiose e specifiche, si può comunque tentare di evidenziare, del campo digitale, una controversa questione che pare le icone riescano a rappresentare con disinvoltura.
A pensarci bene, si può infatti immaginare che dalle icone tradizionali quelle elettroniche abbiano ripreso una similare capacità di “rappresentare” e di “essere”, nel contempo, l’oggetto stesso della rappresentazione.
Usano infatti la potenza della Metafora e propongono la coincidenza tra significante e significato ( Macluan), in termini moderni ma con uguale efficacia di quelli antichi.
Nel secolo scorso René Magritte, pittore surrealista, dipinse su una tela una pipa, e le assegnò come titolo “Ceci n’est pas une pipe”.
E in effetti, per quanto fosse verosimigliante, segnalava che era al massimo un disegno e non certo una vera una pipa, tanto è vero che non si poteva …fumare!
Diverso è il caso di quella che oramai chiamiamo confidenzialmente “cartellina” nei Sistemi Operativi tipo Windows o Macintosh.
Infatti pur essendo un’immagine virtuale sulla scrivania del computer, pure questa a sua volta virtuale (desktop) e perciò puramente immaginaria, in realtà aprendola ci troviamo dentro davvero i documenti che le abbiamo assegnati.
Si tratta di una immagine che coincide, dunque, con l’oggetto che rappresenta.
Un ambito che immagino degno di essere esplorato .
L’icona, o immaginetta che sia, ha certamente un passato ed ha ancora un presente, anch’esso ben documentato, e forse ci riserba anche un futuro tutto da …. immaginare!

Riferimenti:
• Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte Volume I – Piccola Biblioteca Einaudi anno 1967
• Cyril Mango, La civiltà bizantina – Editori Laterza, anno 2014
• Wikipedìa, Lemmi vari

A margine della Mostra dei Santini curata da Vincenzo Policastro e Gerardo Ciddio ,
dal 30 maggio al 6 giugno 2017 – Chiostro di San Bernardino, Rione Borgo di Lauria

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